Vi siete mai chiesti perché in cima alle classifiche di vendita, peraltro diverse una dall’altra, ci siano soltanto gialli, romanzi storici e libri di cucina?

Noi sì. E a differenza della risposta che molti si possono dare, cioè che gli editori pubblicano quello che i lettori vogliono leggere e sono disposti a acquistare, riteniamo che sia giusto l’opposto: i lettori si procurano le uniche cose che gli editori pubblicano con la scusa che i lettori non siano in grado di apprezzare altro.

Ma ci sono alternative?, potreste giustamente chiedere. Be’, sì, è che talvolta questo altro nemmeno viene preso in considerazione dagli editori talora incapaci di riconoscerlo o di accettarne la sfida. Ci riferiamo a libri che danno fastidio, dicono cose scomode, che è poi il tratto specifico della letteratura: leggendo un libro, ti succede qualcosa, che ti piaccia oppure no, e spesso è un qualcosa di sgradevole, che oltre a farti percepire le tue potenzialità mette soprattutto a nudo i tuoi limiti. Le persone comuni usano Lexotan o Prozac, alternativamente per tirarsi su o buttarsi giù, il lettore non ha bisogno di droghe artificiali per vedere con lucidità dentro di sé o affrontare le montagne russe delle emozioni: ha già il libro, il libro di letteratura.

Per esistere, simili libri esistono da sempre, almeno dal Satyricon di Petronio duemila anni fa, sono sempre circolati, talora clandestinamente a periodi, e spesso con grande successo anche di vendite perché, sembra incredibile, noi umani abbiamo fame di sapere e non solo fame di visceri che ci spinge a comprare un volume per apprendere la miglior ricetta della carbonara vegana o se i morti ammazzati saranno due o tre e l’investigatore scoprirà il colpevole a pagina duecentododici o trecentosei – a seconda del formato della collana –, oppure quante corna ha fatto Giulio a Giulietta durante le esterne del loro interno notte non solo a Verona.

Perché allora sono così rari oggi? Se fosse che pubblicare e far circolare libri, chiamiamoli per comodità “scomodi”, non fosse conveniente?

Un libro di letteratura non può essere consolatorio, per la sua natura spinosa, né raccontare in modo conformistico dato che per quello basta una chiacchierata al bar o un thriller seriale dove il male è già compiuto e il bene trionfa immancabilmente alla fine. Costa scriverlo, questo libro, costa riconoscerlo, costa sceglierlo, costa leggerlo, e nessuno ci guadagna nulla se non un occhio suppletivo per interpretare sé, gli altri, la vita, il lavoro, i sentimenti, il sesso. E i vantaggi? Sfuggendo alla normale partita doppia delle merci, la letteratura non può essere conteggiata in profitto, il suo beneficio è puramente immateriale e non monetizzabile a priori.

Occorre coraggio per fare gli editori sia per compiere certe scelte sia per sfoderare la capacità di difenderle anche quando i risultati commerciali, attesi oppure no, non arrivano dall’opera che ha un valore superiore al tornaconto spiccio di breve periodo.

La letteratura non paga, anzi la fa pagare cara. A chi? Prima di tutto allo scrittore, che risponde personalmente anche di quanto raccontato in forma romanzesca e nel rispetto della libertà di pensiero, parola e critica sancita dalla Costituzione. Ne risponde a tal punto che o l’editore si rifiuta di pubblicare quel suo testo per evitare rogne a se stesso o, col medesimo intento, se i “pericoli” sono circoscritti, gli chiede – sottinteso pretende, poiché senza quelle modifiche il libro non verrà pubblicato – di togliere questa pagina urticante, camuffare quel nome troppo esplicito, cambiare un aggettivo feroce, addolcire un passaggio impopolare. In subordine, se l’autore giustamente non accetta le censure – resistendo in proporzione al suo potere contrattuale –, l’editore gli sottopone una liberatoria secondo cui tutte le grane che dovessero insorgere a seguito della pubblicazione ricadranno sull’autore medesimo e, anche qualora il libro infine esca, spesso l’editore non lo sostiene e non lo promuove come merita condannandolo a restare nei fatti inedito quindi incapace di conquistare un suo pubblico.

Ecco perché è dannoso che l’editore respinga un testo di valenza letteraria per proprio quieto vivere, per non urtare la cosiddetta sensibilità del pubblico o, più spesso, gli interessi spicci del padrone di turno e del sistema tutto, autocensurandosi per eccesso di zelo pur di non contrariarli. È pericoloso che la linea editoriale diventi la scusa per avallare una linea di ubbidienza o, peggio, di neghittosità.

Assurdo! Gli editori, che sono imprenditori, non si assumono dunque il rischio d’impresa e nessun rischio del tutto essendo espressione di quello stesso capitalismo poco propenso a far aprire gli occhi su di sé grazie alla letteratura. La riprova? Le scelte editoriali che vanno per la maggiore, e qui torniamo alla domanda iniziale.

Mai si sono sentite querele, sequestri o anche solo telefonate incazzate al redattore circa storie del commissario o tenente o brigadiere o appuntato o anatomopatologo ambosessi che compiono indagini giallistiche e scovano vigliacchi e bastardi solo sulla carta giacché nel mondo reale, tantomeno intorno a loro o loro stessi, non ne esistono; oppure intimidazioni per volumi di robe culinarie, dove l’affermazione più compromettente a fini di linciaggio sociale è scrivere che sul pesce è ammessa una spolverata di grana; o infine ritorsioni per narrazioni ambientate ai tempi del Gladiatore o di Maria Antonietta: tutti morti sepolti e con tiepidi eredi coloro che potevano dolersene, tutti già scritti, codificati e santificati gli accadimenti così da non consentire alcun azzardo di denuncia o interpretazione eterodossa, nessuna attinenza pericolosamente contaminante con la realtà presente.

A chi giova questa situazione? Di certo non all’editoria italiana, che infatti è al collasso. Ma in primo luogo nuoce a voi, cittadini, lettori, esseri senzienti, teste pensanti. Una voce libera in meno è una fetta d’ignoranza in più per tutti noi; una perdita civile, etica, individuale. E a dircelo, ancora una volta, è la letteratura – se mai sarà pubblicata.